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Per De Beers i diamanti sono oro

I diamanti sono d’oro. O, meglio, la vendita di brillanti è davvero ricca: De Beers, maggior gruppo mondiale nel settore dei diamanti nel 2013 ha superato il miliardo di dollari di utile operativo, con una crescita del 112%. A novembre 2011 il gruppo Anglo American è salito all’85% del capitale sociale di De Beers, acquistando una quota del 40% dalla famiglia Oppenheimer. Il restante 15% del numero uno mondiale dell’estrazione dei diamanti è in mano al governo del Botswana. La performance del 2013 è stata raggiunta con un aumento dei ricavi a 6,4 miliardi di dollari (circa 4,67 miliardi di euro) e a un rapporto dei cambi favorevole. Tutto bene, quindi, tranne che in India, dove «le condizioni economiche difficili e una svalutazione della rupia hanno provocato un calo della domanda. Il mercato Usa ha invece registrato una crescita positiva, con un buon andamento del quarto trimestre grazie alle festività. La Cina ha continuato a mostrare tassi di crescita positivi, ma a livelli coerenti con il rallentamento dello sviluppo economico», si legge in una nota.  

Negozio De Beers in Cina
Negozio De Beers in Cina

Bulgari nei guai con il fisco

Entrare nel mirino del fisco non piace a nessuno. Tanto meno a Bulgari, che ha dovuto venire a patti con l’Agenzia delle entrate. Secondo quanto si legge sui quotidiani, Bulgari ha versato circa 30 milioni di euro (ma c’è chi dice 42 milioni) per chiudere il contenzioso amministrativo con il fisco italiano. Insomma, il fisco sosteneva che Bulgari negli anni passati non avesse pagato tutte le tasse che avrebbe dovuto. Alla fine i consulenti della maison romana finita sotto il cappello di Lvmh, hanno consigliato quello che in linguaggio fiscale si chiama «accertamento con adesione». La decisione, bisogna dirlo, è stata anche «consigliata» da un sequestro per equivalente di beni e disponibilità finanziarie per oltre 55 milioni di euro. Il Fisco ha contestato a Bulgari i bilanci del periodo 2006-2009, quando avrebbe occultato circa 3 miliardi di euro attraverso società estere. Non poco, in effetti. Purtroppo, però, la cosa non termina con la super multa, pardo, con il patteggiamento. Il pubblico ministero di Roma che ha condotto le indagini, secondo indiscrezioni, sarebbe pronto a chiedere il rinvio a giudizio per i 13 indagati, tra cui i fratelli Paolo e Nicola Bulgari, Francesco Trapani (che ha da poco lasciato la poltrona di numero uno dei gioielli Lvmh), e Maurizio Valentini, rispettivamente ex e attuale rappresentante legale della società italiana. Per tutti l’accusa è di dichiarazione fraudolenta mediante artifici e raggiri e di evasione fiscale. Una situazione, è il caso di dirlo, poco brillante. Federico Graglia 

Francesco Trapani con la figlia Lorenza
Francesco Trapani con la figlia Lorenza

 

 

Store Bulgari in Cina, Francesco Trapani fa gli onori di casa
Store Bulgari in Cina, Francesco Trapani fa gli onori di casa

Con Bulgari bilancio d’oro per Lvmh

Pare che i gioielli italiani servano a produrre utili. Per i francesi. Secondo il consuntivo 2013 del gruppo Lvmh, colosso che spazia dalle borse di pelle allo champagne, fino a orologi e gioielli, l’acquisizione di Bulgari sembra sia un toccasana per i conti, perlomeno a leggere quanto dichiara la società. Il gruppo Lvmh ha chiuso il 2013 con ricavi a oltre 29 miliardi, contro i 28 del 2012. Ma l’area di attività relativa a gioielli e orologi ha perso qualche colpo: il fatturato è infatti sceso a 2,7 miliardi dai 2,8 dell’anno precedente. Eppure, gli utili netti sono aumentati. In particolare, per la divisione che riunisce brand cone Tag Heuer e Bulgari, gli utili sono lievitati a 375 milioni di euro rispetto a 334 del 2011. Insomma, un po’ meno vendite, ma maggiori guadagni. In particolare, Bulgari ha fato segnare un grande anno, come dimostra il successo della collezione Serpenti, con esposizioni organizzate a Shanghai, Dubai e New York. È andato bene, pare, anche il lancio della nuova collezione Diva, oltre alle linee B.zero1 e agli anelli di fidanzamento, che hanno contribuito al successo del marchio. La super testimonial Carla Bruni ha rafforzato la presenza internazionale di Bulgari, che ha svettato anche nel segmento orologi, con Bulgari Octo che mantenuto la sua posizione come top-of-the-line premium segnatempo maschile.  

 

 

Bernard Arnault, presidente di Lvmh
Bernard Arnault, presidente di Lvmh

 

 

 

VicenzaOro, business in aumento

Pare che VicenzaOro Winter sia andata bene. Il comunicato finale sprizza ottimismo: era ora, dopo anni bui. L’edizione 2014 si chiude all’insegna della crescita: nei sei giorni di fiera i padiglioni hanno accolto 1.500 brand, sfiorando le 30mila presenze, con un numero maggiore di visitatori e buyer stranieri. In crescita soprattutto gli operatori dall’Unione Europea, dalla Turchia, dai Paesi dell’Est, Medio Oriente e Golfo, Americhe e dall’Asia, con Giappone, Hong Kong e Cina. In tutto, 7.763 presenze da oltrefrontiera, +6% rispetto alla passata edizione di gennaio 2013. Anche il numero degli operatori italiani è stato in crescita (+1%), con un totale di 8.653. Da segnalare, inoltre, l’ingresso a VicenzaOrio di 11 nuovi Paesi. F.G. 

Affari a VincenzaOro
Affari a VincenzaOro
VicenzaOro 2014
VicenzaOro 2014

Clamoroso: Stroili in vendita

Clamoroso: Stroili in vendita, come è avvenuto due anni fa a Bulgari e come è stato lo scorso anno con Pomellato. E mentre aspetta un acquirente che compri l’azienda, Stroili sta preparando l’espansione all’estero, con nuove cento gioiellerie tra Russia e Cina. Ne dà notizia il settimanale «il Mondo». Vi proponiamo l’articolo a firma di Daniela Polizzi e Carlo Turchetti

Da sinistra: Luca Argentero, Ilary Blasi e Maurizio Merenda
Da sinistra: Luca Argentero, Ilary Blasi e Maurizio Merenda

Da «il Mondo»

Le somme verranno tirate entro un paio di settimane, con i risultati delle vendite di Natale e delle promozioni in corso, un passaggio chiave per il pre-consuntivo di bilancio del gruppo Stroili e il suo network di 370 gioiellerie. Poi l’ad Maurizio Merenda e il board selezioneranno l’advisor che dovrà vagliare le opzioni future per il maggiore retailer italiano di preziosi in mano ai private equity Investindustrial (31% in via indiretta), 21 partners e Wise (10% a testa) più Intesa Sanpaolo (12%), ossia la cordata che otto anni fa affiancò i precedenti soci L-capital (6,6%) ed Ergon (2,4%). La review strategica passerà in rassegna le opportunità di mercato: alleanze, fusione con un altro retailer, vendita a un big del settore o a un altro fondo di buyout. Non c’è ancora un incarico formale ma una short list di banche d’affari che hanno fin qui presentato idee e credenziali. E tra queste primeggia l’ipotesi di un mandato alla Lazard, già introdotta nel mondo Stroili con alcuni suggerimenti recepiti nel piano industriale al 2017.

Negozio Stroili a Palermo
Negozio Stroili a Palermo

Certo non sarà una vendita lampo perché il retail nei gioielli vive una fase di riflessione in tutta Europa. E perché Merenda vuole prima accelerare il percorso che dovrà portare il gruppo a guadagnare posizioni all’estero. Oggi l’Italia pesa per il 95% dei 220 milioni circa di ricavi, in linea con quelli 2012, e questo non è il migliore viatico per attrarre investitori internazionali e spuntare multipli di valore vantaggiosi. La priorità è quindi spostare il peso sull’estero portando i ricavi al 15-20% del totale. E questo vuol dire mettere in pista cento nuove gioiellerie tra Cina (ora Stroili ne ha solo sei), Russia (una) e altri mercati dell’Est Europa. La chiave per velocizzare il riposizionamento saranno gli accordi di master franchising con catene di mall commerciali e specialisti del retail, capaci di garantire location appetibili nelle arterie commerciali di molte città. L’altra leva sarà il wholesale per i marchi Stroili Oro, Franco gioielli ed Exx. L’Italia assorbirà solo una piccola parte dei nuovi investimenti completando il network fino a 390 negozi. Tra Milano e Udine, le due sedi Stroili, la parola ricorrente è «discontinuità», un termine condiviso da Merenda, il board e la compagine dei soci, anche  con diversi accenti e sensibilità sul modo di tradurla in pratica. E questo significa un cambio di passo su estero, strategia commerciale, prodotti, concept dei negozi al fine di accrescere la redditività (oggi l’ebitda è al 15-16% dei ricavi) e la scalata a multipli più alti, che riflettano un mix più attraente. E quindi una way-out sperabilmente vantaggiosa per la cordata che otto anni fa investì 130 milioni equity con 70 tra prestiti bancari e mezzanini. Oggi i numeri del gruppo sono raddoppiati e così anche la possibile valutazione. Dipenderà dall’appetito degli investitori per un business che nei gioielli replica il modello Zara quanto a prezzo, riassortimento e contenuto moda. Tra i candidati naturali a un’aggregazione con Stroili figurano per esempio due nomi. Il primo è Histoire d’Or, maggiore catena in Europa di gioielli per tutte le tasche, 540 negozi e 344 milioni di ricavi, nata in Francia con presidi anche in Italia e Portogallo. Bridgepoint la controlla da oltre tre anni e in passato ha valutato un investimento nel concorrente italiano, senza andare avanti. L’altro nome è la Oro Vivo, base a Ginevra e 170 gioiellerie in Svizzera e Francia, parte del gruppo orafo Christian Bernard controllato dal fondo Butler capital e partecipato dal fondatore Bernard Nguyen. Daniela Polizzi e Carlo Turchetti

Ilary Blasi per Stroili
Ilary Blasi per Stroili

Bomba card in gioielleria

gioielleriaLa limitazione all’utilizzo dei contanti (a mille euro) non piace ai gioiellieri italiani, che chiedono regole europee omogenee. La lotta all’evasione fiscale, che ha indotto diversi governi a stringere sull’utilizzo obbligatorio di carte di credito e bancomat, per rendere tracciabili i pagamenti, secondo i gioiellieri ha depresso ulteriormente le vendite. «Ci auguriamo che si prosegua con celerità sulla strada dell’adozione di criteri omogenei per la circolazione e l’utilizzo del contante, coinvolgendo in primis i Paesi membri dell’Ue, ma intervenendo anche a livello internazionale più ampio», spiega il presidente di Federpreziosi Giuseppe Aquilino, «come, in effetti  si è già in parte riusciti a fare con gli Stati del G8 e del G20, che hanno inserito il tema nell’agenda dei loro summit».

Giovanni Aquilino
Giovanni Aquilino

Secondo Aquilino, a livello europeo è importante che si continui a focalizzare maggiormente  e con rapidità, l’attenzione sugli interventi che attengono alle disparità di condizioni «per quanto concerne i costi delle transazioni, i limiti dell’utilizzo del contante così inspiegabilmente e ingiustamente discriminanti per alcuni Paesi, in testa a tutti il nostro». Federpreziosi fa notare che c’è un’enorme discrepanza tra la soglia dei mille euro dell’Italia, e quella di altri Paesi come il Belgio con 15mila euro, la Danimarca (13.400 euro), Francia (3mila euro), Romania (2.300 euro), Slovenia (15mila euro), Spagna (2.500 euro), mentre negli altri Paesi non vi è alcun limite. Solo in Portogallo e in Grecia sono in vigore limiti restrittivi paragonabili a quelli italiani: mille euro nel primo caso e 1.500 nel secondo. «Lo studio pubblicato da Bankitalia nel Gennaio 2013 ha evidenziato come il problema dell’economia sommersa non sia sufficiente a spiegare il basso utilizzo di strumenti di pagamento elettronici nelle transazioni al dettaglio ma quanta rilevanza abbiano anche fattori di sviluppo, quali la capacità innovativa e il reddito pro capite», accusa Aquilini. «Il nostro Paese si è adeguato con grandi sacrifici di tutti, e di alcune categorie in particolare, a regole imposte e penalizzanti al punto tale che rischiano di compromettere possibilità di ripresa in tempi ragionevolmente brevi per permetterci la pura e semplice sopravvivenza. E qui sta a noi di continuare a mantenere la pressione a livello del nostro sistema politico e finanziario». Federico Graglia 

Bomba card
Bomba card

 

Chantecler cerca amici (e soldi)

Il settimanale «il Mondo» dà notizia di un nuovo movimento nel business italiano dei gioielli. In un articolo firmato da Daniela Polizzi e Carlo Turchetti, infatti, si dà notizia che il brand Chantecler sarebbe in vendita o, per meglio dire, cerca soci. Chanteclerè il nomignolo di Pietro Capuano, conosciuto così in omaggio a un personaggio di Edmond Rostand, che assieme a Salvatore Aprea diede vita al brand. Ora, scrive il magazine, «Chantecler significa gioielli d’alto artigianato, 23 milioni di ricavi, sei boutique inclusa quella storica nel passeggio della Piazzetta di Capri. Un mondo che adesso incrocia anche quello del merger & acquisition, degli investitori in caccia di occasioni nel lusso. Al lavoro c’è l’advisor Vitale & Associati incaricato di avviare sondaggi presso potenziali soci finanziari per sollecitare idee e progetti, corredati dall’interesse a entrare nel capitale a fianco dei fratelli Gabriele, Maria Elena e Costanza Aprea, di 56, 50 e 47 anni, gli eredi di uno dei due inventori del marchio e proprietari di un terzo delle azioni a testa, mentre non ha avuto discendenti il signor Chantecler».
Scrive ancora il giornale che L’identikit del partner ideale è un investitore che apporti nuovo capitale (magari da arrotondare con l’acquisto di quote dagli Aprea) per sviluppare il network di gioiellerie fin qui aperte a Milano, Cortina, Tokyo, Astana in Kazakistan e Singapore, oltre a Capri, e negli Stati Uniti grazie alla partnership con Neiman Marcus. Per non dire dei 150 negozi multibrand anche fuori Italia. Già, perché per il futuro si guarda ai mercati esteri che oggi producono una crescita del 20% del fatturato (l’Italia viaggia a più 6-7% l’anno). Ma l’ingrediente chiave sarà arruolare un nuovo management attingendo ai nomi più reputati della gioielleria, per preparare un business plan di sviluppo e valorizzare, con le leve del marketing, oggetti icona quali il Gallo, le Campanelle e le Marinelle. L’obiettivo è replicare la storia di marchi come Pomellato, rinati a nuovo vita dopo essere stati affidati a mani esterne fino a suscitare l’interesse dei big del lusso (il brand milanese è finito a Kering).
Storia ricca di aneddoti, quella di Chantecler, a metà tra business e mondanità. Capuano era un avvocato che scordò la laurea per aprire la prima gioielleria nel 1947 con l’amico orafo Aprea. Ebbe la fortuna di incrociare molte celebrità, da Maria Callas a Jaqueline Kennedy, a Liz Taylor. Tutte sue clienti. L’uscita dell’azienda dalla dimensione artigianale è ben più recente (ancora dieci anni fa fatturava solo 6 milioni). Nel 2010 ha trasferito quartier generale e showroom a Milano in via Gesù e le lavorazioni sono state spostate nel distretto orafo di Valenza».

 

Renzo Rosso a caccia di gioielli

Un gioiello per Renzo Rosso. Il fondatore di Diesel, in un’intervista al Corriere di Verona, svela di voler far shopping di gioielleria. Ma comprando un’intera azienda, non solo un anello o un bracciale. «A fine 2012, subito dopo l’acquisizione da parte di Only the brave di Marni, il gruppo era arrivato a un passo da Pomellato», racconta Rosso. «C’eravamo andati molto vicini. Un po’ è stata anche colpa nostra: uscivamo dall’acquisizione di Marni, non eravamo concentrati fino in fondo. E poi i francesi hanno fatto un’offerta che non si poteva rifiutare». Sfuggita la preda, Rosso non si rassegna. E sta mettendo a fuoco nuove operazioni. «In modo globale, ci manca ancora il know-how sui gioielli, e potremmo fare ancora molto con gli accessori», anche con dei «marchi alternativi». Chi sarà la preda del re dei jeans? Federico Graglia 

Renzo Rosso
Renzo Rosso
Pomellato d'antan
Pomellato d’antan

Damiani a San Pietroburgo

Prosegue con uno store a San Pietroburgo l’apertura di punti vendita Damiani oltrefrontiera. In particolare, l’espansione programmata dall’azienda italiana di oreficeria avverrà nei mercati che mostrano una maggiore crescita, come la Russia. Dopo l’inaugurazione di una vetrina a Mosca lo scorso marzo(https://gioiellis.com/damiani-diventa-damianoff), il presidente del gruppo di Valenza, Guido Grassi Damiani, è ora volato a San Pietroburgo per tagliare il nastro alla nuova location. Al 30 giugno 2013, il Gruppo gestiva 52 punti vendita diretti posizionati nei principali vie internazionali del lusso. Con l’inaugurazione dello store di San Pietroburgo il totale sale a 53. Federico Graglia 

Guido Grassi Damiani a San Pietroburgo
Guido Grassi Damiani a San Pietroburgo

 

Con gentili signore
Con gentili signore

Per Tiffany affari d’oro

[wzslider]Tiffany fa soldi a palate. La maison americana ha chiuso il bilancio del secondo trimestre (al 31 luglio), con utili in aumento del 16,3%, a 106,8 milioni di dollari. Wow, a che cosa si deve questo balzo? Semplice: alle vendite di gioielli Tiffany in Cina e Giappone. Infatti, il colosso dei gioielli newyorchese ha venduto per il 4,4% in più, a 925,9 milioni di dollari, ma l’aumento maggiore (+13%) arriva delle vendite nella regione Asia-Pacifico (che pesa per il 22% dei ricavi). Al contrario, Tiffany non sfonda negli Usa e dintorni. Non brillanti le vendite dei gioielli che costano meno quelli d’argento e che danno più utili. Merntre l’azienda va bene nel segmento dell’alta gioielleria. In ogni caso, Tiffany ha alzato le sue previsioni per la fine dell’anno. Auguri. Federico Graglia

 

 

Damiani, tre mesi in bianco e nero

Niente da fare, Damiani resta in rosso, anche se di poco. Direte: ma a noi che importa? Importa, invece. Perché in Italia di grandi gruppi nel settore ce ne sono pochi, anzi, praticamente nessuno. La piemontese Damiani è una delle poche aziende che tenta di farsi largo tra i colossi francesi che come schiacciasassi acquistano marchi di gioielleria (e del lusso) come fossero sacchetti di patatine. Quindi, i conti della Damiani ci interessano.  Il risultato è incoraggiante, ma la strada da fare è lunga.

Veniamo prima alle notizie positive: nel periodo in questione i negozi a gestione diretta in Italia e all’estero hanno complessivamente registrato ricavi in incremento del 24,1% a tassi costanti. Anche perché i negozi sono aumentati di numero e, quindi, è logico che anche i ricavi si siano incrementati. Con un distinguo generale: il fatturato ha registrato una buona performance all’estero, mentre nel mercato italiano, «sempre colpito dalla stagnazione dei consumi e da una generale incertezza, hanno evidenziato una contrazione». Non per nulla l’azienda spinge per aprire nuovi store nei Paesi in cui l’economia tira (gestisce 52 punti vendita diretti posizionati nei principali vie internazionali del lusso), mentre in Italia i consumi ristagnano. Nonostante questo, però, Damiani nota che anche Italia c’è stato un incremento, anche se contenuto: +1,5% rispetto al 30 giugno 2012.

I conti: il gruppo Damiani nei tre mesi in esame ha incassato 33,1 milioni di euro, rispetto ai 31,4 milioni registrati nell’analogo periodo dell’esercizio precedente, con una variazione positiva del 7,7% a tassi di cambio costanti e del 5,4%, a tassi di cambio correnti. In particolare, i ricavi nel canale retail sono cresciuti del 24,1%, a tassi di cambio costanti e del 20,3% a tassi di cambio correnti.

Note negative: Damiani venderà anche di più, ma perde. L’ebitda (spieghiamo a chi non se ne intende di finanza: si tratta dell’utile lordo, prima delle tasse) del gruppo è negativo  per 572mila euro, anche se in miglioramento rispetto ai –1,1 milioni di euro al 30 giugno 2012. Il problema è che le vendite non coprono i costi: il risultato operativo del gruppo è stato negativo (–1,3 milioni di euro) e alla fine la perdita netta del Gruppo è stata di 2 milioni di euro. Guadiamo il lato positivo: l’anno scorso alla stessa data la perdita era di 2,8 milioni. Il fatto è che Damiani deve continuare a investire sui mercati esteri, ma questo costa. E così i debiti aumentano, anche se sono sotto la soglia del livello di guardia: le passività sono salite a 34,3 milioni di euro rispetto ai 33,0 milioni al 31 marzo 2013. Federico Graglia

Guido Grassi Damiani all'inagurazione dello store di Mosca
Guido Grassi Damiani all’inagurazione dello store di Mosca

Morellato farà shopping

Chi non ha acquistato il «Corriere della Sera» non saprà mai che Morellato è in vena di shopping. Il brand padovano guidato da Massimo Carraro, che ha appena acquistato Pianegonda, ha infatti intenzione di fare altre acquisizioni nei prossimi mesi, come ha spiegato nell’intervista pubblicata sul quotidiano milanese. Che voglia fare lui il polo della gioielleria che manca in Italia? Morellato Group, conferma l’articolo, si è calato nel ruolo di «polo aggregante» di marchi di eccellenza made in Italy. Pianegonda, brand vicentino acquistato un paio di mesi fa (https://gioiellis.com/pianegonda-si-allarga/) a settembre presenterà una nuova linea di gioielli, che si affianca ai brand anche dell’orologeria, come Philip Watch, Sector, ma anche Bluespirit, catena da 220 negozi. L’idea di Carraro è cercare aziende di qualità, che magari sono in difficoltà a causa della crisi. A rilanciarli ci penserà lui. Ma, attenzione, a differenza dei colossi francesi, Morellato vuole rimanere nell’ambito del lusso accessibile. « Morellato è lusso, lusso contemporaneo. L’equivalenza fra lusso e prezzo inaccessibile è vecchia e superata. Lusso è ciò che è bello», ha spiegato nell’intervista. Carraro è ottimista: «La crisi ha compresso la fascia media, ma questo è accaduto soprattutto in Europa. In Brasile, Medio Oriente, Cina, nelle nuove economie, le cose vanno in maniera completamente diversa». Insomma, avanti con la linea di prezzi buoni e prodotti di qualità. Il gruppo Morellato (190 milioni di fatturato, 800 dipendenti in Italia, 2.400 nel mondo), d’altra parte, se la cava bene. Vedremo se anche Pianegonda saprà dargli delle soddisfazioni. Giulia Netrese 

Massimo Carraro assieme a Mena Suvari all'inaugurazione dello store di 551 Fifth Avenue a New York
Massimo Carraro assieme a Mena Suvari all’inaugurazione dello store di 551 Fifth Avenue a New York

 

Sfilata con gioielli Morellato a Gran Canarie
Sfilata con gioielli Morellato a Gran Canarie

 

Carolina Cerezuela, madrina allo store di Madrid
Carolina Cerezuela, madrina allo store di Madrid

 

Valerie Begue, testimonial di Morellato in Francia
Valerie Begue, testimonial di Morellato in Francia

Gioielli italiani di moda all’estero

Pare che l’export di gioielli vada a gonfie vele. Nel 2012 le vendite di oreficeria e gioielleria italiana sono cresciute del 10,9%, il secondo miglior risultato dopo il settore dell’industria farmaceutica (+12,5%), e prima di alimentari e bevande, terzo settore con un incremento del 6,7%. Insomma, esportiamo in percentuale più orecchini e bracciali che mozzarelle, parmigiano e vino. I dati sono ufficiali: li ha presentati l’Ice, l’ente che aiuta le aziende a vendere all’estero. Federico Graglia

Oreficeria a Dubai
Oreficeria a Dubai
Guido Grassi Damiani con lo staff dello store al Peninsula di Shanghai
Guido Grassi Damiani con lo staff dello store al Peninsula di Shanghai
Store Damiani negli Emirati
Store Damiani negli Emirati

Claudia Piaserico guiderà gli orafi di Vicenza

La sezione Orafi e Argentieri di Confindustria Vicenza ha un nuovo presidente: Claudia Piaserico. Il direttore creativo del brand Misis subentra a Giuseppe Corrado. Il resto della squadra comprende i vicepresidenti Carlo Bernardi (Chrysos, Romano d’Ezzelino) e Damiano Zito (Progold, Trissino) e il consiglio direttivo composto da  Paolo Bettinardi (Better Silver, Bressanvido), Giuseppe Corrado (Imo, Vicenza), Gilberto Facco (Facco Corporation, Camisano Vicentino), Massimo Lucchetta (Lucchetta Armando, Bassano del Grappa), Luigi Marostica (Karizia, Cassola), Paolo Passuello (Re Sole, Vicenza), Enrico Peruffo (F.lli Bovo, Trissino) e Romeo Salin (Salin, Longare).

“Abbiamo voglia di lavorare braccio a braccio per aumentare la coesione all’interno della sezione e il numero delle aziende associate” è stato il primo commento della neo eletta. “Il nostro obiettivo è crescere come sezione e come imprese, superare l’individualismo di alcune situazioni passate e fare gruppo per superare insieme il momento congiunturale innegabilmente difficile”.

Claudia Piaserico nel 2011 ha vinto il Premio Maria Bellisario per aver portato l’eccellenza italiana nel mondo con la creatività e l’ingegno di chi ha avuto il coraggio di reinventare il gioiello. U.A.

 

 

Oro giù, diamanti su

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Oro in ribasso ai minimi degli ultimi tre anni, scendendo sotto quota 1.200 dollari l’oncia, il minimo da tre anni. Ma in compenso vola il prezzo dei diamanti grezzi, il cui valore dall’inizio dell’anno è in aumento del 10-15%. Una corsa al rialzo che rischia però di essere fermata dalla Cina: l’appetito dei cinesi per le gemme preziose sta calando con il rallentamento dell’economia. E il pericolo per i diamanti è quello di perdere il loro splendore. Il mercato americano resta il maggiore al mondo per i diamanti, rappresentando il 35-40% delle vendite, ma il boom degli ultimi anni è legato ai paesi in via di sviluppo, in particolare la Cina. E i dati di De Beers non lasciano adito a dubbi: solo a Shanghai fra il 1993 e il 2006 le spose che hanno ricevuto un anello di fidanzamento in diamanti è passato da zero al 62%. I timori sulla tenuta dell’economia e il credit crunch cinese smorzano però l’appetito per le gemme preziose, spingendo a una maggiore cautela prima di acquisti importanti. E l’impatto sui prezzi dei diamanti potrebbe farsi avvertire in modo pesante. A questo si aggiunge l’incertezza sulle politiche della Fed, che sta facendo crollare le quotazioni dell’oro. Gli appelli alla calma della banca centrale americana non stanno per ora avendo alcun effetto sulle quotazioni del metallo prezioso, che continua sulla sua parabola di calo. Il presidente della Fed di New York, William Dudley, è intervenuto per cercare di placare i timori degli investitori, così come ha fatto il presidente della Fed di Atlanta, Dennis Lockart. I mercati – spiegano – hanno mal interpretato il presidente della Fed, Ben Bernanke. «Non è il calendario, ma l’economia a dettare» il ritmo degli acquisti di asset che, in caso si rallentamento, potrebbe anche continuare a una ritmo sostenuto e per un periodo lungo», mette in evidenza Dudley. F.G. oro-mask

A che oro giochiamo?

Quando si arresterà la discesa dell’0ro? Oggi nuovo scivolone delle quotazioni: il prezzo spot del metallo giallo è sceso ai nuovi minimi dall’agosto 2010 sotto quota 1.230 dollari l’oncia (minimo a 1.227,71 dollari) con un calo di quasi il 4% rispetto ai livelli della vigilia. Da notare che anche Deutsche Bank, la principale banca tedesca,  ha visto al ribasso le previsioni sui metalli preziosi. L’istituto tedesco ha annunciato di aver ridotto la stima 2013 sull’oro del 6,7% a 1.431 dollari l’oncia mentre il dato 2014 subisce una decurtazione del 10,8% a 1.338 dollari. È stata ottimista, pare. Nel terzo trimestre 2013 un’oncia del metallo giallo è stimata a 1.350 dollari, il 10% in meno rispetto alla view precedente. Il calo dell’oro dovrebbe trascinare anche il cugino povero, l’argento, che secondo Deutsche tra luglio e settembre si attesterà in quota 21,4 dollari, il 17,3% in meno rispetto al dato precedente, mentre il dato relativo l’intero 2013 scende del 9,9% a 24,1 dollari.

lingotti

Andretta alla guida di Buccellati

Primo cambiamento in casa Buccellati. Si tratta dell’arrivo di Thierry Andretta, nuovo amministratore delegato che è stato scelto dal fondo Clessidra per guidare la maison. Francese di Toulouse, 56 anni, nutrito curriculum nel fashion, Andretta ha lasciato due mesi fa la guida di Lanvin dove era approdato nel 2009 dopo un biennio come ceo di Moschino (gruppo Aeffe) e un passato in Céline (Lvmh), Ungaro e Gucci. Chiuso in aprile il sodalizio con la casa di moda parigina, si dice per disaccordi con la signora Show-Lan Wang, miliardaria di Singapore proprietaria del marchio. Il manager d’origine italiana adesso si occuperà di gioielli con la cooptazione e le deleghe nel board di Buccellati holding, la maison di preziosi dove il fondo di Claudio Sposito è entrato con il 67% affiancando la terza generazione dei gioiellieri Andrea, Maria Cristina, Gino, Lucrezia e Luca Buccellati. Andretta, manager di polso, con il pallino del retail e degli accessori, avrà il compito di sviluppare i negozi all’estero mentre la responsabilità di stile e prodotto sarà del presidente Andrea Buccellati, figlio dell’anziano patriarca Gianmaria, 83 anni, presidente onorario. Andretta avrà anche un pacchetto di azioni: gli è stato riservata una porzione della ricapitalizzazione pari all’1,5% più una stock option su un ulteriore 2%.  F.G. [wzslider]

 

Damiani più rosa che rosso

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Si può perdere soldi ed essere felici? No. Ma un po’ meno preoccupati sì. È quanto accade a Damiani, apprezzata maison italiana, l’unica che abbia avuto il coraggio di quotarsi in Borsa. Rispetto agli altri gruppi della gioielleria, quindi, Damiani è costretta a rendere pubblici i conti della propria attività. Ergo, mentre molti colleghi piangono in silenzio i danni della crisi, Damiani non li nasconde. Premesso questo, veniamo ai conti del 2012, approvati dall’assemblea di bilancio di venerdì 14 giugno. Damiani ha dovuto archiviare un altro anno in rosso ma, per sua fortuna, si tratta di un rosso più tendente al rosa, cioè meno profondo di quello dell’anno precedente: siamo ora a – 8,6 milioni si euro, mentre 12 mesi fa il risultato negativo era stato di 11,9 milioni. Ok, non è che uno fa i salti di gioia se perde soldi a ripetizione, ma sembra il segno di un trend in miglioramento. Il margine lordo consolidato (Ebitda) è invece negativo per 2,7 milioni, anche qui in migliorameto.

I dati di bilancio dicono anche che i ricavi al 31 marzo 2013 (i Damiani hanno un anno fiscale spostato di tre mesi)  sono stati di 137,8 milioni rispetto ai 151,6 milioni di euro al 31 marzo 2012. Insomma, il 9% in meno di ricavi, ma meno perdite: segno che l’azienda non sta con le mani in mano. Anzi, per la verità prosegue nella sua espansione all’estero, dove la crisi italiana non c’è: Damiani gestisce 70 punti vendita, di cui 49 diretti e 21 in franchising nelle principali vie delle grandi città in Italia e all’estero. Nel corso dello scorso anno sono state inaugurate sei nuove boutique all’estero. E a maggio è arrivata la prima boutique monomarca Damiani a New Delhi, all’interno del lussuoso Oberoi Hotel.

Ecco il commento ufficiale del  presidente del gruppo: Guido Grassi Damiani:

“L’anno fiscale si chiude in un contesto ancora complicato e difficile con il quale il nostro Gruppo si è dovuto confrontare e che ha fortemente condizionato i risultati conseguiti. Tuttavia nel corso dei dodici mesi chiusi al 31 marzo 2013 siamo cresciuti con le nostre boutique monomarca e multimarca a gestione diretta, che hanno confermato i trend positivi che si protraggono da quattro esercizi consecutivi a testimonianza dell’apprezzamento delle nostre collezioni da parte del cliente finale, nazionale ed estero. Abbiamo continuato ad investire in Greater China dove siamo presenti con 9 negozi, tra cui Pechino e Shanghai recentemente inaugurati. L’ulteriore implementazione della strategia distributiva, più orientata sul canale retail e sull’estero, e la piena evidenza degli interventi strutturali sui costi operativi, confermati dall’avvio del nuovo esercizio, porta a ritenere che nel 2013/2014 il Gruppo Damiani possa veder riflessi anche in apprezzabili risultati economico-finanziari quanto raggiunto sul piano commerciale, di prodotto e di mercato”.

 

I conti di Brosway

Giugno è tempo di conti per le aziende, anche per quelle di gioielli. Ecco allora i dati del gruppo Bros Manifatture, quello che produce, tra l’altro, i gioielli Brosway e S’Agapò: il 2012 si è chiuso in aumento dell’1,3% a 38,8 milioni di euro. Di questi tempi non è male, anche se nel 2011 la crescita era stata ben più alta: 43%. Il problema è che il 95% del fatturato di Bros Manifatture è realizzato in Italia, dove i consumi sono in calo. Eppure la redditività rimane alta: l’ebitda (utile lordo) è di oltre il 20%. Veniamo alla produzione: S’Agapò è andato alla grande, con una crescita del 15% rispetto al 2011. Chi fa più ricavi è però il marchio Brosway, con oltre 30 milioni di euro tra gioielli, argento e orologi. Ora, per non rimanere impastoiata in un mercato fermo come quello italiano, l’azienda fondata e guidata da Gianfranco Beleggia cerca di crescere sui mercati internazionali, in particolare in Germania, Nord Europa, Russia, Francia e Stati Uniti. E in Italia, punta su un nuovo retail concept, simile a quello straniero dei corner e degli shop in shop. Federico Graglia

 

Collana Brosway
Collana Brosway

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S'Agapò Trinidad
S’Agapò Trinidad

 

Investire in gioielli è di moda

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Se c’è una cosa che Gioiellis.com tiene d’occhio, a parte le novità che arrivano sul mercato, è l’aspetto per così dire concreto del mondo della gioielleria. Cioè il lato economico, che per le aziende significa stare sul mercato con profitto, per i consumatori individuare l’acquisto (ovviamente nel caso di una spesa consistente) che si traduca anche in un investimento. Pare che il nostro sito sia sulla strada giusta, visto che anche il «Wall Street Journal» ha dedicato giorni fa un ampio articolo all’argomento. Il più diffuso giornale economico del mondo parte dalla vendita, in un’asta di Christie, del diamante rosa a un collezionista internazionale per 39,3 milioni dollari. E Sotheby, racconta il giornale, ha venduto un diamante rosa ancora più tre anni fa per 46 milioni dollari, più quanto sia mai stato pagato per una tela di Camille Pissarro o Paul Gauguin. Insomma: un diamante, grande, può essere un investimento più prezioso di una tela di un rinomato pittore.
Che business brillante. I diamanti, quindi, non sono più solo i migliori amici delle ragazze. Sono, infatti, gli uomini i primi acquirenti di un mercato, quello dei gioielli, che vale 71 miliardi dollari. E non perché mariti e fidanzati vogliono regalare un paio di orecchini per mogli o amanti in occasioni speciali. Gli uomini, e ovviamente alcune donne, acquistano gioielli perché stanno spostando una parte del loro patrimonio in diamanti, gemme e preziosi con un appeal globale.

Investire 100 milioni. Rahul Kadakia, specialista di gioielleria per Christie ha spiegato al giornale Usa che molti uomini hanno fatto ultimamente visita al suo ufficio, alla ricerca di consigli su come «investire 100 milioni di dollari in gioielli nel corso dei prossimi cinque anni». Martin Rapaport, che ha costruito la più grande rete di trading di diamanti, RapNet, ha riferito che un amico miliardario ha recentemente acquistato 100 diamanti da 1 carato l’uno e li ha inanellati in una lunga collana stile anni Venti. In questo modo, ha spiegato, può spostare 10 milioni di dollari da una parte all’altra del mondo semplicemente facendoli indossare alla moglie. «L’oro farebbe scattare i metal detector dell’aeroporto. E girare con troppi contanti è difficile, sono ingombranti», ha spiegato, «ma un anello o una collana e non hanno problemi a passare la dogana». Insomma, i gioielli come bene rifugio e da tasca. Lo conferma Judith Price, presidente dell’americano National Jewelry Institute: «La gente vuole avere la possibilità di muoversi velocemente. Non puoi farlo con un Rodin infilato sotto il braccio, ma un piccolo gioiello può semplicemente essere riposto in tasca».

Investimento a medio termine. I prezzi dei diamanti sembrano salire costantemente. Il mese scorso, racconta sempre il «Wall Street Journal», il prezzo medio richiesto tra intermediari per un diamante di 1 carato è stato di circa 10.500 dollari. Con una  crescita del 31% rispetto a sei anni fa, rileva il RapNet Diamante Index, che traccia i prezzi tra 12mila concessionari di gemme di tutto il mondo. Nello stesso periodo (sei anni), l’indice di Borsa Standard & Poor 500 è aumentato del 14%.

Re e regina. L’idea che i gioielli siano un patrimonio da accumulare non è nuova. Il faraone Tutankhamen fu sepolto con la sua collezione, Enrico VIII istruì i suoi gioiellieri per far apporre le sue iniziali su quasi ogni ninnolo che indossasse. Oggi alcuni regnanti sono ancora considerati gli acquirenti migliori di gioielli, in particolare il sultano del Brunei e l’Emiro del Qatar. Ma la differenza è che oggi  sono gli investitori a dominare il mercato della gioielleria, e i loro gusti e le abitudini determinano i prezzi. In Cina, i grandi magnati desiderano soprattutto diamanti D, cioè perfetti, privi di difetti, bianchi e trasparenti. Li voglio piccoli, piuttosto, ma senza la minima imperfezione. Invece, nel resto del mondo le dimensioni contano: Sotheby ha appena venduto un diamante bianco a forma di pera da 75 carati per 14,2 milioni dollari. Il venditore lo aveva pagato 4,3 milioni dollari nel 2001, con guadagno del 230%. I collezionisti cinesi sono anche pronti a spendere parecchio per i diamanti nei rari toni del rosa e del blu.

Anche le perle. Non ci sono solo i diamanti. India e Medio Oriente sono più attratti dalle perle naturali, una rincorsa che ha preso il via nel 2007, quando due fili di perle che furono del Maharajah di Baroda sono stati venduti per 7,1 milioni di dollari, ben al di sopra del 6mila dollari della stima iniziale. E a Ginevra un uomo ha pagato a Christie di 4,5 milioni dollari per un ornamento da turbante con smeraldi, chiamato sarpej, stimato per 800mila dollari.

Dal quadro al gioiello. Ci sono poi molti collezionisti di arte che diversificano: meno quadri e più gioielli. Il settore sta registrando un afflusso di appassionati di arte contemporanea che comprano gemme e gioielli anche per compensare il rischio legato ai loro più recenti acquisti di pezzi d’arte. Peter Brant, per esempio, l’industriale-editore che raccoglie Andy Warhol e Urs Fischer, acquista a Parigi pezzi stravaganti di gioielleria del designer Joel Arthur Rosenthal, noto come Jar, e ha anche fatto suoi anche un paio di diamanti a Londra dal gioielliere Laurence Graff. Il finanziere greco Dimitri Mavrommatis, che raccoglie porcellane di Sèvres, dipinti impressionisti e arte contemporanea, ha confessato di aver messo assieme una «fantastica collezione di pietre» negli ultimi dieci anni, tra cui diamanti rosa, blu e gialli, oltre a zaffiri del Kashmir. Il suo pezzo migliore è un rubino da 8,6 carati chiamato Graff Ruby, perché Graff l’aveva pagato da Christie 3,6 milioni dollari nel 2006. Mavrommatis ha comprato il rubino dal gioielliere londinese un anno dopo e che ora potrebbe probabilmente rivenderlo per quasi 10 milioni. Quando François Curiel, specialista di Christie, ha iniziato la vendita di gioielli, 40 anni fa, i suoi cataloghi erano in bianco e nero, e raramente si mostravano i pezzi prima della vendita. Ora le case d’asta stanno facendo tutto il possibile per apparire accessibili ai novizi.

Acquisti con stile. Non solo gemme o pezzi unici: c’è chi punta a raccogliere gioielli in una collezione che abbia un preciso stile. Per esempio, il collezionista di Boston Fred Sharf raccoglie pezzi in stile anni Cinquanta disegnati da Van Cleef, ma ha ultimamente iniziato a comprare pezzi «retro» con pietre più ,ordinarie come il citrino, realizzati durante la Depressione e la Seconda Guerra Mondiale. Insomma, le possibilità di investire in gioielli sono tante: se avete qualche qualche milione di euro da parte, pensateci.